PVT e i fatti miei

PVT e i fatti miei

La foto qui l’ho scattata quasi quindici anni fa. Sono andato sulla tomba di PierVittorio Tondelli (da qui in avanti PVT) rispondendo alla sollecitazione di un gruppo di scritti di Un week-end postmoderno. Allora Un week-end postmoderno era il mio livre de chevet. Odio gli anni ’80, odio soprattutto i miei anni ’80, e in quel libro invece trovavo invece racconti esotici di vacanze in Grecia, lauree a Bologna, vernissage a Firenze, concerti nella bassa padana e a Filottrano, elenchi e sollecitazioni. Avevo cominciato a scoprire PVT con Altri libertini, che niente c’entrava con le letture di un liceo classico provincialissimo. Avevo divorato PAO e preso Rimini in biblioteca e ancora oggi non è nei miei scaffali anche se ne ricordo i personaggi. La mia copia di Biglietti agli amici l’ho regalata ad una amica in un momento importante per lei.
Quando sono andato a Reggio Emilia e a Correggio, sulle tracce di PVT, mi sono fermato in un ostello della gioventù nel quale soggiornavano, ben oltre i sette giorni, giovani lavoratori del sud Italia che lavoravano nelle fabbriche della zona. Era gestito da madre e figlio. La madre si chiamava Priama. Il figlio era scrittore e lettore e iniziammo a parlare di PVT e mi consigliò la visita alla Libreria del Teatro. Lì trovai il libraio che aveva letto le prime stesure di Altri libertini e aveva spedito PVT da Feltrinelli. Uscii dalla libreria carico come un somaro e con una copia di Fonderia Italghisa di Giuseppe Caliceti, su consiglio dell’ostelliere. La sera finii al Maffia, dopo tutto il giro dietro a PVT, e ballai in un concerto di fine tour dei Modena City Ramblers, che non sono sicuro ma forse era uno degli ultimi di Alberto. Feci in tempo a salutare Giovanni giusto prima di collassare. Fonderia Italghisa era la storia del Maffia, divorai il libro in treno e tornai a Macerata che volevo spingere i suini marchigiani a fare la loro rivoluzione. Gabriele, Tatiana e Natascia portarono pazienza anche quella volta.
C’è una cosa di PVT che mi sembra importante (insieme all’essere stato talent scout e aver piantato semi) ed è che non mi ricordo una frase. Non c’è una frasetta da citare e buttare lì. Ci sono pagine. Pagine di letteratura, non frasi per cioccolatini o status update o aforismi per ogni momento. Una pagina è una cosa che non ti puoi ricordare per intero. Richiede che tu la vada a prendere per verificare, parola dopo parola, se il ricordo era corretto e muta davanti a te il suo senso.
L’ostelliere di Reggio Emilia mi diceva che il libro migliore di PVT era Camere Separate, l’unico libro che non avevo amato alla prima lettura. L’ho preso più avanti, dopo l’esperienza e i parchi di Aquisgrana, i sedili dei treni ad Olimpia, i letti improvvisati di Bologna, il tassista dell’alba a Siviglia, il vento di Montecanepino. Ora Camere Separate lo apro quando voglio fermarmi e guardarmi allo specchio. Camere Separate comincia così:

Un giorno, non molto distante nel tempo, lui si è trovato improvvisamente a specchiare il suo viso contro l’oblò di un piccolo aereo in volo fra Parigi e Monaco di Baviera.
All’esterno, ottomila metri più sotto, la catena delle Alpi appariva come una increspatura di sabbia che la luce del tramonto tingeva di colori dorati. Il cielo era un abisso cobalto che solo verso l’orizzonte, in basso, si accendeva di fasce color zafferano o arancione zen.
Inquadrato dalla ristretta corince ovoidale dell’oblò il paesaggio gli parlava del giorno e della notte, dei confini fra i mondi della terra e dell’aria e da ultimo, allorché si accese una luce nella carlinga e su quell’olografia boreale apparve il riflesso del suo volto appesantito e affaticato, anche del sé. La sua faccia, quella che gli altri riconoscevano da anni come “lui” – e che a lui invece appariva ogni giorno più strana, poiché l’immagine che conservava del proprio volto era sempre e immortalmente quella del sé giovane e del sé ragazzo – una volta in più gli parve strana. Continuava a pensarsi e a vedersi come l’innocente, come colui che è incapace di fare del male e di sbagliare, ma l’immagine che vedeva contro quello sfondo acceso era semplicemente il viso di una persona non più tanto giovane, con pochi capelli fini in testa, gli occhi gonfi, le labbra turgide e un po’ cascanti, la pelle degli zigomi screziata di capillari come le guance cupree di suo padre. In sostanza un viso che subiva, come quello di ogni altro, la corruzione e i segni del tempo.
Solo qualche mese fa ha compiuto trentadue anni.

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